sábado, 15 de febrero de 2025

Hölderlin e la scrittura: parola, silenzio e vertigine poetica










 


La scrittura di Friedrich Hölderlin si configura come un’esperienza liminale, un territorio in cui la parola cessa di essere semplice strumento comunicativo per diventare evento, rivelazione, tensione metafisica. La sua poesia, densa di fratture, interruzioni e cesure, riflette un rapporto con il linguaggio che è al tempo stesso estatico e tragico, segnato dall’impossibilità di dire pienamente il mondo e dall’urgenza di tentare comunque questa impresa impossibile. Per Hölderlin, la parola poetica non è un mezzo descrittivo, ma un’azione, un atto che incide nel reale, che lo trasfigura e lo ricrea, rendendo visibile l’invisibile. Nella sua concezione, il poeta è un medium tra il divino e l’umano, tra il tempo e l’eternità. La lingua poetica si fa tensione verso l’assoluto, ma questa tensione è continuamente frustrata dall’inadeguatezza del linguaggio stesso, che si spezza, si lacera, si interrompe. Il suo stile è segnato da anacoluti, inversioni sintattiche, pause improvvise che non sono semplici anomalie formali, ma il sintomo di un pensiero che procede per illuminazioni e abissi, per slanci e crolli. L’elemento centrale nella scrittura hölderliniana è la cesura: una pausa improvvisa, un arresto che interrompe il flusso della frase, creando un vuoto carico di significato. Non è un semplice silenzio, ma un momento di sospensione e rivelazione, un punto in cui il linguaggio si confronta con il proprio limite. Questa concezione della parola come evento interrotto, come qualcosa che si manifesta e insieme si nega, è ciò che rende la sua scrittura così radicalmente moderna e ancora oggi vertiginosa. Per Hölderlin, il poeta è un essere esposto all’assoluto, costretto a un confronto con una verità che non può essere pienamente posseduta. La scrittura diventa allora un esercizio di equilibrio sul crinale del dicibile e dell’indicibile, un viaggio in cui la parola si carica di un’intensità quasi insostenibile. La sua opera rappresenta uno degli apici della poesia occidentale, proprio perché non cerca di risolvere il mistero dell’esistenza, ma di abitare la frattura, di stare nell’inquietudine, nel rischio, nel vuoto. La sua influenza è stata enorme su filosofi, artisti e registi, tra cui Romeo Castellucci, che ha fatto della parola hölderliniana un elemento centrale nel suo teatro. L’idea di una lingua che non spiega ma evoca, che non descrive ma agisce, si ritrova nel lavoro di Castellucci, dove il testo diventa puro suono, materia, gesto, un’entità che esplode e si dissolve. Come Hölderlin, anche Castellucci cerca un teatro che sia rivelazione e trauma, un’esperienza in cui il linguaggio non è più un veicolo di significati preconfezionati, ma un evento di verità, una fenditura attraverso cui si intravede l’abisso.